La Storia ci regala a volte momenti topici in cui si incrociano vicende dall’alto valore simbolico. Non è questione di destino o provvidenza ma, talvolta, il tempo si dimostra galantuomo e rimette le cose al giusto posto, riparando torti e punendo ingiustizie. È accaduto ieri, quando Silvio Berlusconi è stato commemorato al Senato con tutti gli onori, e poco dopo il magistrato Piercamillo Davigo è stato condannato a 15 mesi per rivelazione di segreti d’ufficio.

Ma la questione non è tanto la condanna di un personaggio che ha legato la sua immagine ad un modo sbagliato di intendere la giustizia. Il punto è che, per la prima volta, una toga-star è stata condannata per un reato che, in genere, non è mai perseguito, né punito. È stato lo strumento con cui in trent’anni sono state fatte fuori intere classi dirigenti ancor prima di arrivare ai processi, il volano di quel meccanismo perverso, il cosiddetto circuito mediatico-giudiziario, per cui tanti imputati sono finiti alla gogna sui giornali e sulle piazze ancora prima di essere giudicati da un tribunale. Un modo abbietto – e ideologico – di perseguire la giustizia che ha distrutto vite, carriere, governi, parlamenti e financo determinato suicidi eccellenti.

Il bersaglio più illustre di queste operazioni è stato proprio Berlusconi, che ha dovuto affrontare 37 processi e presenziare un numero infinito di udienze, spendendo milioni in avvocati, ma la vera persecuzione per lui è stata quella di vedere il suo nome apparire sui giornali in relazione a vicende criminose da cui poi è uscito del tutto indenne. L’obiettivo dei suoi accusatori non era tanto quello di perseguire un reato, quanto di sporcare il suo nome. Ma alla fine Berlusconi ha vinto la sua vera battaglia in politica: restituire al Paese una giustizia giusta.

In pochi giorni dopo la sua morte ci sono stati avversari che hanno condiviso le sue tesi sulla giustizia, Mieli si è ricordato che il Corriere è stata la cassetta delle poste della procura di Milano, Nordio ha presentato una riforma in suo nome e il Robespierre italiano è finito sul patibolo per il meccanismo perverso che il Cavaliere ha sempre denunciato. Insomma, Berlusconi ha avuto ragione. La giustizia deve essere giusta e non strumento di persecuzione mediatica.

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