Attualità: La De Gregorio chiama “decerebrati” quelli che distruggono una statua. Ma stavolta è nel giusto
Nell’ultimo articolo di Concita De Gregorio su “Repubblica”, pubblicato venerdì scorso, si è sollevato un sospetto: la nostra vista ci stava ingannando o c’era stato un errore di impaginazione nel giornale. De Gregorio si scagliava contro i “decerebrati” che, in passato, sarebbero stati definiti “insegnanti di sostegno”. Chi erano questi individui? Gli influencer che, nella provincia di Varese, avevano distrutto una statua del XIX secolo per un selfie. Il commento chiedeva ai loro genitori di punirli severamente, mancando solo le pene corporali. Siamo rimasti stupiti per la durezza del linguaggio, da parte di una giornalista solitamente molto attenta alle sfumature, e per la furia dell’invettiva, considerando che De Gregorio preferisce solitamente un registro più ironico. La parte più sorprendente dell’articolo era la conclusione: il rimedio “patriarcale” della famiglia, o meglio dei genitori, che dovrebbe ripristinare l’ordine e la disciplina. Tuttavia, poiché le leggi della comunicazione seguono percorsi che sfuggono all’autore stesso, De Gregorio è stata immediatamente travolta da una valanga di critiche, definita anche “shit storm” nel linguaggio dei social media, a causa del primo paragrafo, in cui aveva paragonato gli influencer vandali ai decerebrati. È stata accusata di odiare i disabili, non solo quelli descritti nell’articolo, ma tutti in generale. Tanto è vero che, nell’edizione di ieri del giornale, ha dovuto “ritrattare” o “autocriticarsi”, utilizzando termini tipici dei processi inquisitori o del lessico stalinista e maoista. Tuttavia, come spesso accadeva ai poveri cristiani di fronte ai Domenicani o alle Guardie rosse, la ritrattazione o l’autocritica, proprio perché forzata, faceva trasparire come l’imputato continuasse a pensare allo stesso modo. Dopo essersi scusata con i “decerebrati”, De Gregorio ha aggiunto che “il linguaggio politicamente corretto e il comportamento che ne consegue stanno paralizzando l’azione”. Questo concetto è stato sostenuto da anni dalle menti più illuminate della sinistra americana, mentre i liberali e i conservatori lo hanno sempre sostenuto. Questo episodio ci porta a alcune considerazioni. La prima è che, anche quando un articolo viene pubblicato su un giornale “cartaceo”, la sua ricezione è determinata dai social media, che lo leggono solo in frammenti e non organicamente. La ricezione sui social media non coglie la successione degli argomenti, ma vede solo alcune parole “chiave”. Se queste parole sono presenti, come nel caso di “decerebrati”, scatta la condanna. La seconda considerazione riguarda il “politicamente corretto”, dove l’obbligo morale di non traumatizzare le diverse categorie uccide uno dei principi della retorica e della scrittura: la similitudine o la metafora. È evidente che De Gregorio non voleva insultare i disabili, ma usarli come metafora di un comportamento da condannare. Forse, in questo caso, la crudezza dell’invettiva l’ha tradita, ma il principio è giusto: se ogni categoria umana non può essere “offesa”, e neppure gli animali e le piante, cosa rimane della scrittura? La terza considerazione riguarda la parte più importante del primo articolo di De Gregorio, sfuggita a tutti: l’elogio della famiglia repressiva. Questa denuncia, però, arriva fuori tempo massimo: temiamo che né la famiglia né la scuola possano fare nulla contro i barbari del mondo digitale. Sempre che si possa dire ai barbari che sono barbari.