Brescia insolita

Cosa accadeva in quell’edificio di vicolo Rossovera, un tempo fatiscente e pieno di infiltrazioni, nella metà degli anni ’60? Lì si trasferirono «travestiti» provenienti dalla provincia bresciana e da varie parti d’Italia.

Percorrendo gli stretti viottoli del Carmine, in una delle zone più nascoste del quartiere, arrivando al numero 5 di vicolo Rossovera, oggi ci troviamo di fronte un’antica palazzina di cinque piani dall’aspetto sobrio e decoroso. Nella silenziosa penombra della sera appare come un posto tranquillo, ben tenuto, con sorridenti fiori ai davanzali che portano lontano dalla ronzante vitalità della città. Niente che possa far sospettare che qui, fino alla completa rovina e al risanamento dell’edificio, c’era la famosa «Casa delle bambole». Di fatto un edificio fatiscente pieno di infiltrazioni e soggetto a crolli, dove a metà degli anni ’60 si trasferiscono «travestiti» provenienti dalla provincia bresciana e da varie parti d’Italia. In una Brescia cattolicissimamente democristiana il Carmine, già rifugio per ogni tipo di reietto, diventa tempio della sovversione sessuale, dove la processione religiosa si trasforma in lunghe code di automobili di clienti in attesa del proprio turno per passare qualche tempo con i «femminielli» che qui si prostituiscono.

La vita nella «Casa delle bambole» è raccontata in dettaglio da Armando Borno, «l’Armanda», nell’intervista comparsa nel libro «Lei, Armando», a cura dello stesso Borno e del giornalista Nicola Baroni. Una vita piena di sesso e di droga, anfetamine sparate in vena, ma anche di musica, di fotografia, di cultura underground, di storie di solidarietà e di storie atroci. Contrasti forti, tinte accese che oscillano tra la decadenza e lo splendore. I bresciani, pur facendosi il segno della croce incontrando uomini vestiti da donna, sono dei grandi frequentatori della casa. I clienti appartengono a ogni classe sociale, dall’operaio al grande imprenditore, ma anche uomini di fede, come un tale don Calogero che si dava, non raramente, ai piaceri della carne portando due travestiti e un bottiglione di grappa alla ruta sul campanile della chiesa.

Tra le storie più bizzarre quella dell’imprenditore camuno, cliente fisso, ossessionato dal film di Pasolini «Salò, o le centoventi giornate di Sodoma», disposto a spendere anche 20 milioni di lire per inscenare le proprie perversioni sessuali che potevano durare più giorni e dove era centrale la visione e il commento della pellicola. Come racconta ancora Armando Borno nessuno dei frequentatori della Casa si dichiarava omosessuale, «quelli vogliono andare con uomini che sembrino uomini», ma sono soprattutto padri di famiglia con il «vizietto»: «All’epoca volevano tutti essere attivi, ora vogliono tutti essere passivi».

Insomma, tra ieri e oggi si è passati dal dare al prendere, e qualche sociologo può analizzarne le motivazioni sociali. Il travestito più noto della Casa era La Lea, figura magnetica e quasi spettrale che sfoggiava un look tra Patty Pravo e David Bowie: è stata la prima transgender bresciana, vittima di una vita travagliata che l’ha portata dallo splendore al declino, all’emarginazione, alle droghe e alla follia. La casa delle bambole racconta anche una Brescia piegata dagli anni di piombo, come raccolto in un’altra intervista ad Armando Borno a cura di Elia Zupelli: quando scoppia la bomba nella vicina piazza Loggia, in vicolo Rossovera ci stanno «dando dentro», i vetri esplodono, e in quel momento «è come se con le vittime fossimo morti anche noi». Uno spaccato storico da un’angolatura «diversa» che racconta una Brescia decisamente insolita.

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