Un filo rosso lega la storia di don Paolo Zecchin a Legnano. Sacerdote vicentino destinato in Istria, si trovò dopo l’Armistizio del ’43 a vivere in “un angolo di inferno in terra”, intrappolato nella sua stessa città da un turbine di violenza inspiegabile: minacciato e malmenato per la sola colpa di essere italiano e sacerdote, amato dalla sua gente, scampò alla morte nelle foibe solo per puro caso.

La sua è una storia simile a quella di chi durante la guerra ha trovato la libertà lasciandosi l’amore alle spalle, ma è anche una storia di salvezza che molti altri hanno desiderato e non hanno mai avuto. Ricordare il passato serve per capire il presente e per evitare che le persecuzioni e la brutalità della Seconda Guerra Mondiale si ripetano ancora. A raccontarci di Don Paolo è il suo lontano nipote Paolo Crippa, scrittore legnanese che non vuole dimenticare.

Gli orologi segnano il tempo e la Storia, ma ci sono alcuni orologi che portano su di sé i segni della Storia. È il caso di questo orologio che reca, sul suo quadrante, le cicatrici di una vita lacerata dall’esperienza violenta e dolorosa dell’Esodo giuliano. Questo orologio fu acquistato quasi 100 anni fa in una bottega di Trieste da uno sconosciuto sacerdote vicentino, che era appena stato destinato dal vescovo di Trieste ad Umago, in Istria, allora terra italiana. Era il 5 ottobre 1928 e da questo momento l’Istria è una terra che, come un filo rosso, lega indissolubilmente la vita della mia famiglia. Questo sacerdote, Don Paolo Zecchin, era lo zio di mio nonno materno, Romano, a cui fece da madre e da padre, dopo che era rimasto orfano di sua mamma, falciata da una malattia, che spesso ricordiamo in questi tempi di COVID, la febbre Spagnola.

Ho iniziato a conoscere l’Istria attraverso i ricordi di mio nonno, che nutriva grande affetto per questa terra, che nutriva un grande amore per lo zio Don Paolo, ma una sorta di reticenza, che sempre lo contraddistinse, fece sì che i racconti fossero pochi e rarefatti. Umago, Buie, Capodistria, Matterada erano una sorta di ritornello nei discorsi fatti in famiglia, un ritornello che mi incuriosiva, un ritornello che però rimaneva relegato in quella sorta di limbo dove giacciono quelle cose che sfiorano le nostre vite, aspettando di tornare prepotentemente. La storia di mio nonno Romano si intrecciò con quella di Legnano nel 1939, quando, dopo aver vissuto nella “Terra Rossa” per 11 anni, la possibilità di un lavoro stabile lo portò nella nostra città. Don Paolo rimase in Istria, ma venne la tragedia della Seconda guerra mondiale, venne il drammatico Armistizio, l’Istria diventò un angolo di inferno in terra. Occupata una prima volta dai partigiani di Tito, si scatenò una caccia all’italiano, che sfociò nei primi infoibamenti, conosciuti come “le foibe di settembre”.

La penisola istriana fu presa alla fine del settembre 1943 dalle truppe tedesche, ma la situazione in quelle terre divenne giorno dopo giorno sempre più drammatica: furono due anni di vita sospesa per gli italiani dell’Istria, minacciati sia dagli occupanti germanici che dai partigiani jugoslavi. Per Don Paolo, uomo dall’aspetto austero, ma che si faceva amare profondamente dai suoi parrocchiani (all’epoca era Parroco della cittadina di Matterada) e per i quali si spese fino all’ultimo giorno, iniziò una via Crucis. Arrivarono le minacce verbali, le scritte minatorie sui muri della chiesa, che ribadivano le sue “colpe”, essere italiano e sacerdote, anzi peggio, un sacerdote italiano amato dalla sua Gente. Le minacce presero tristemente il volto di persone che avevano bussato alla sua porta e che lui stesso aveva aiutato nel suo ministero sacerdotale. Le minacce infine presero anche corpo e Don Paolo fu malmenato ripetutamente, persino nella sacrestia della chiesa parrocchiale, di giorno e di notte, e gli fu più volte promessa una fine violenta.

Don Paolo scampò al destino di morte per puro caso: il 17 aprile 1945 si dovette allontanare momentaneamente dalla Parrocchia per motivi familiari. Questo evento casuale gli salvò la vita, ma, da quel momento, per lui iniziò un lungo calvario, la fine della guerra ed il dilagare delle truppe jugoslave in Istria gli impedirono di riunirsi alla sua Parrocchia ed a quella che per lui era la sua Gente e la sua Terra a Matterada. Più volte tentò di ritornare, più volte il Vescovo di Trieste lo dissuase, facendolo persino parlare con alcuni suoi Parrocchiani, giunti a Trieste fortunosamente, che lo sconsigliarono di fare ritorno, per le gravi minacce che gli venivano costantemente rivolte, anche se era ormai lontano. Le minacce contro di lui erano infatti continuate anche mentre era lontano. Un giorno, su di un muro della chiesetta parrocchiale furono tracciate queste parole: “Dite che don Paolo vi vuole bene, ma don Paolo è un bugiardo, è scappato per lasciarvi soli”. Ma nella notte, queste parole scomparirono, coperte da una spessa mano di vernice, stesa dalla pietosa mano di un ignoto parrocchiano.

Nei diari di Don Paolo traspare la pena di un uomo costretto a vivere lontano da quella che ormai sentiva la sua Terra, un uomo esule dall’Istria, ma anche esule in Italia, senza una Parrocchia dove poter esercitare il suo ministero, costretto a spostarsi dalla casa di un parente all’altra. A Matterada Don Paolo lasciò tutto, i pochi beni materiali di un sacerdote ed i tanti beni affettivi, tanto che anche fine dei suoi giorni volle essere ricordato come Esule Giuliano, ma, paradossalmente, fu proprio questa perdita, vissuta con sofferenza, a salvargli la vita, ad evitare che anche lui, come molti altri italiani, finisse in una foiba.

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