Il dubbio è un sentimento naturale, ma avere alcune certezze nella vita può aiutarci a non smarrire i pochi punti di riferimento che illuminano il nostro cammino. Semplici cose, niente di complicato: il sole è caldo, l’acqua è umida, il cuoco sa cucinare, una buona cioccolata scalda il cuore, in un’aula di giustizia le bugie non passano inosservate. Soprattutto se pronunciate da chi indossa una toga. Il valore delle certezze risiede nel fatto che, senza di esse, rischiamo di non credere più a niente. E da scettici diventiamo cinici. E il cinismo, come diceva Aldo Grasso, è “la crudeltà dei delusi”.

Nell’aula della corte d’Appello di Brescia, una delle certezze di cui sopra, che ci protegge dal cinismo, è venuta meno. Come è noto, martedì si è svolta la seconda fase del processo di revisione sulla strage di Erba, una revisione ancora non accettata (la decisione sarà presa il prossimo 10 luglio). Sono passati più di 17 anni da quel tragico lunedì di metà dicembre, ma oggi, più che mai, quando si parla di Rosa Bazzi e di Olindo Romano, si toccano nervi scoperti. Si sono creati, o si sono voluti creare, due schieramenti opposti, più adatti alle curve del Meazza in Milan-Inter o dell’Olimpico in Roma-Lazio che a una vicenda giudiziaria così delicata. Uno schieramento che è anche figlio di una narrativa che è stata alimentata sulla questione, soprattutto negli ultimi sette anni. Da quando, e non a caso, si è iniziato a cercare possibili alternative alla colpevolezza dei coniugi Romano, accusando un innocente (Pietro Castagna) di essere coinvolto nella strage. Un’infamia. Infamia è un termine che esprime un giudizio e, in quanto tale, è un concetto soggettivo. Ma in questo caso, l’attacco a Pietro Castagna è stata un’atroce violenza. In questo clima, soprattutto considerando che si è scelto di fare nomi e cognomi di coloro che avrebbero commesso errori (anche intenzionali, secondo una certa narrazione), attaccando tutti personalmente (nelle pagine interne diamo voce a una delle persone più colpite dagli attacchi, il luogotenente Gallorini), è difficile focalizzarsi su questioni tecniche. Ma ci proveremo.

Si parlava di dubbi e certezze. Una delle certezze che potrebbe proteggerci dalle delusioni di cui si è parlato all’inizio, è che nelle aule di giustizia, tra suggestioni e tecnicismi, le parti coinvolte scelgono sempre la strada del rispetto dei fatti. Si può discutere sul fatto che la terra possa sembrare piatta, ma non si può affermare oggettivamente che lo sia. Dopotutto, la toga che si indossa è il simbolo del rispetto delle regole. In questo contesto, è legittimo che gli avvocati di persone condannate all’ergastolo possano chiedere una revisione del processo, anche usando argomentazioni suggestive per sostenere le proprie ragioni. È più difficile accettare che in un’aula di giustizia, indossando una toga, si possano far passare per vere circostanze oggettivamente inesistenti. Ed è ciò che è accaduto martedì. Dalle difese sono state pronunciate affermazioni che trovano una smentita nei fatti. Ad esempio, dire che Mario Frigerio abbia identificato il suo aggressore come uno straniero di etnia araba nel primo incontro con i magistrati è una falsità storica. Non è mai successo. Basta ascoltare le registrazioni di quei colloqui per accorgersene. Si può dire che abbia indicato un assassino dalla pelle olivastra, ma non si può attribuire a una persona qualcosa che non ha mai detto. Si è anche sostenuto che gli inquirenti abbiano riletto interamente i verbali di interrogatorio di Olindo Romano e Rosa Bazzi e che ciò spieghi perché le loro versioni della serata siano identiche. Anche qui, basta riascoltare le registrazioni per rendersi conto che non è vero. Fino a martedì, pensavamo che queste manipolazioni della verità fossero limitate a certi programmi televisivi o alle complesse argomentazioni delle memorie depositate in tribunale. Ma mai avremmo pensato che potessero diventare affermazioni perentorie pronunciate all’interno di un’aula di giustizia. Dato che i giudici non sono certo ingenui e hanno esaminato attentamente tutte le prove, e dato che gli avvocati non sono così ingenui da pensare che ripetere una bugia possa farla diventare verità, dobbiamo concludere che quelle affermazioni sono state fatte per i giornalisti e i taccuini. Ancora una volta, per cercare di influenzare l’opinione pubblica partendo da premesse false, trasformando il processo penale in una sceneggiatura per un qualche docufiction. Dove l’ipotesi di complotto trionfa sempre.

Articolo precedenteLa costosa cura di Polly: il lusso di avere un cane a Como
Articolo successivoTragedia a Esino Lario

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui