Il caso dell’uomo condannato all’ergastolo in primo grado per l’omicidio della studentessa varesina del 1987 e poi assolto nei successivi gradi di giudizio continua a tenere banco. Stefano Binda, di Brebbia, è stato ingiustamente detenuto per quasi tre anni prima di essere definitivamente scagionato dall’accusa di avere ucciso Lidia Macchi. La Corte d’Appello di Milano aveva accordato a Binda una compensazione di 300mila euro per l’ingiusta detenzione, ma la Cassazione ha rinviato gli atti accogliendo il ricorso della Procura.

La questione è stata affrontata in una nuova udienza alla presenza degli avvocati di Binda e del sostituto Procuratore generale Laura Gay. La Procura ha ribadito la sua posizione, sostenendo che Binda avrebbe contribuito all’errore sulla sua carcerazione con i suoi silenzi e che la sua condotta negli interrogatori era fortemente equivoca.

Dall’altra parte, la difesa di Binda ha sempre sostenuto la sua estraneità ai fatti e ha evidenziato che erano presenti testimoni che confermavano la sua assenza nel luogo del delitto. Ora spetta alla Corte d’Appello di Milano decidere se riconoscere o meno il risarcimento a Binda, prendendo in considerazione le questioni giurisprudenziali emerse dalla sentenza della Cassazione.

La vicenda di Stefano Binda rimane dunque ancora aperta, in attesa di un nuovo pronunciamento da parte della magistratura. La giustizia dovrà fare chiarezza su un caso che ha segnato la vita di un uomo ingiustamente accusato e detenuto per un crimine che non ha commesso.

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