Magni
Un altro mattino pioveva e una brezza più fredda si faceva sentire. È stato così che il Carletto è entrato nel bar, dove già stavano chiacchierando alcuni amici in attesa dell’aperitivo, tremante, bagnato e arrabbiato per l’anticipo dell’autunno. Ha esclamato: “Ue bagaj l’è propri già rivà el temp de per cott”. Questa colorita espressione uscita dalla bocca del Carletto era una metafora che indicava l’arrivo dell’autunno e dei giorni di chiusura in casa davanti al camino scoppiettante. Si cuocevano quindi in un bel pentolone sopra le fiamme le piccole pere offerte dal generoso frutteto della cascina alla fine dell’estate. Le “pirett” non maturavano mai del tutto ed “eran dür mè un sass”. E così la “resgiura” le cuoceva. Poi venivano servite dopo cena o dopo la frugale merenda del pomeriggio, magari con un po’ di zucchero: un vero piacere che ancora mi emoziona quando penso alle “pirett cott” della mia nonna contadina. Erano buone anche fredde. I contadini bevevano anche l’acqua di cottura, attribuendole benefici terapeutici contro mal di testa, regolazione dell’intestino, tosse e raffreddore.
Il mio amico Luis de Melz mi ha suggerito il “temp de peritt cott”, lui che ne sa una più del diavolo riguardo al dialetto milanese. Luis ha anche raccontato che per il giorno dei morti nel mondo contadino si mangiava la “tempia del purcèll” lessata, ovvero il guanciale, una parte del muso dell’animale. Francesco Cherubini nel suo dizionario del dialetto milanese spiega che la tempia veniva cucinata con i ceci, una vera leccornia. Una porzione di tempia veniva posta fuori dalla finestra la sera per i morti, ma al mattino non c’era più: un mio cugino più grande l’aveva già mangiata.
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