Discriminazione religiosa e lesioni, ventenne a processo. Questo è il titolo che ho letto sabato 1° luglio sulla prima pagina de “Il Cittadino” e, effettivamente, secondo quanto riportato dal giornale, la triste vicenda – del 2021 – coinvolge due giovani, entrambi egiziani, di cui uno “di religione cristiana” e quella sera “indossava un crocifisso dorato”.

I due ragazzi si conoscevano già? Si erano già parlati in passato? Avevano avuto altre occasioni di scambio prima dello scontro? L’articolo non fornisce queste informazioni, ma continua a leggere e sottolinea che i due ragazzi facevano parte di gruppi di giovani che si erano incontrati a Lodi un sabato sera. Le aggressioni sono iniziate in una piazza e sono continuate in un altro punto della città, questa volta aggravate dall’uso di un coltello. Le forze dell’ordine sono intervenute prontamente dopo il primo episodio, ma evidentemente non sono riuscite a fermare il ragazzo. E non avrebbero potuto farlo!

Purtroppo, accade troppo spesso, a questo e ad altri ragazzi, che la violenza sia l’unico modo per esprimere la rabbia cieca e senza parole che brucia dentro di loro e che poi esplode in questo modo! Inoltre, le parole sono arrivate poi, ma ancora una volta sono state parole di minaccia scagliate sui social verso l’aggressore. Come se questo fosse l’unico linguaggio con cui il ragazzo sa esprimersi, ora accusato di “lesioni aggravate dall’odio religioso”. La violenza di questo triste episodio non è razzismo, ma assume altri connotati, quelli di gruppi di ragazzi che si fronteggiano e si sfidano per trovare un pretesto per sfogare la loro rabbia. Spesso l’occasione viene dalla diversità dell’altro, vista come una minaccia alla propria identità, considerata come l’unica possibile e legittimata ad esistere. In questo caso, il detonatore è stata anche una differenza religiosa. Mi colpisce anche la chiusura dell’articolo che riporta le dichiarazioni dell’ex preside dell’imputato: sospeso tre volte in un anno per atteggiamenti aggressivi verso un insegnante. Una conferma di quanto abbiamo ipotizzato.

Il professor Italo Fiorin, direttore della Scuola di Alta Formazione della LUMSA, scrive che “quando l’adolescente esce dai binari, il fallimento è già presente, indubitabile e palese: si va dal dirigente scolastico, si convocano i genitori, si prendono provvedimenti. Il solito teatrino che ribadisce la regola ma non risolve granché”, perché il nostro compito come educatori – genitori, insegnanti, allenatori, adulti in generale – è stare accanto e davanti ai nostri ragazzi. Accanto per tifare per loro, per condividere gioie e tristezze. Davanti affinché non superino i limiti e possano accettare le regole della convivenza civile. Le due cose devono procedere insieme, in un rapporto difficile ma generativo di fiducia reciproca, altrimenti si rischia la perdita e la follia di un desiderio sbandato che si trasforma in arroganza violenta. Ma non riguarda solo i giovani!

Fiorin ci offre delle indicazioni e ci invita a smontare le vite parallele che stanno crescendo nella mente dei nostri figli, anche di quelli che sembrano non avere problemi e vanno bene a scuola, ma vivono una realtà distorta. E questo non si può fare con un semplice provvedimento amministrativo. È importante ciò che succede prima: non solo a scuola, ma anche in famiglia, nella comunità degli amici e soprattutto sui social. Noi adulti non possiamo delegare solo ai professionisti dell’educazione, dobbiamo prendere parte attiva. Come diceva la dottoressa Maria Montessori, “evitare le guerre è compito della politica, costruire la pace è compito dell’educazione”. Abbiamo abbandonato entrambe queste azioni di cura dell’umanità?

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