Ergastolo con isolamento diurno di sei mesi. È la richiesta del pm Caty Bressanelli per i tre imputati dell’omicidio premeditato e dell’occultamento del cadavere di Laura Ziliani, l’ex vigilessa di Temù uccisa la notte tra il 7 e l’8 maggio 2021. Sotto accusa ci sono le figlie Silvia e Paola Zani e Mirto Milani, il ragazzo di Roncola San Bernardo fidanzato della prima e amante della seconda. Ci avevano già provato, ad avvelenare Ziliani con una tisana, ma non ci erano riusciti. A distanza di tre settimane portarono a termine il loro piano» caratterizzato da «una robusta premeditazione», rimarca la pm. I racconti in aula sono cambiati, udienza dopo udienza. Scanditi da dinamiche e legami affettivi di dipendenza reciproca spezzati dopo la carcerazione. Al punto che Silvia, la quale in prima battuta «dubitava del fatto che la signora Ziliani fosse già morta quando Mirto con lei le ha messo le mani al collo» è arrivata, dopo averlo lasciato, «ad attribuirgli l’idea originaria del delitto». La pm invita, però, a soffermarsi soprattutto sugli aspetti rilevanti dal punto di vista giuridico, come il «proposito omicidiario durato mesi» e il fatto che «non abbiano esitato a uccidere nonostante la presenza di una terza sorella, Lucia, disabile, di cui era la madre Laura ad occuparsi». Si svegliò, ma non bastò a fermarli. Per la pm, Paola, Silvia e Mirto non meritano nemmeno le attenuanti generiche, certo non per la confessione, arrivata «tardiva» quando erano in carcere da mesi e inutile alle indagini, ormai chiuse. Rimane qualche ombra sul movente: «Quello economico ha aleggiato a lungo, ma resta in sottofondo — dice la pm —. E se c’è, non è l’unico. La perizia ha chiarito il magma che ha determinato questo omicidio, dettato da un odio profondo». Sintetizzato in una frase che mette i brividi: quel «muori putt…» pronunciato da Silvia, mentre strangolava la mamma. Un odio declinato «nell’insofferenza delle ragazze che mal tolleravano le critiche della madre e ritenevano di non essere amate a sufficienza né volute». E se la resipiscenza, cioè «la comprensione del disvalore di quanto fatto, è il punto di partenza per il percorso di rieducazione a cui la pena deve tendere, non credo gli imputati l’abbiano capito. L’impressione è che il loro dispiacere non sia per aver ucciso, ma per essere stati presi e finiti in cella».

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