Giuliano Giuliani: una storia di coraggio e abbandono
Pensare che quella mattina lì l’aveva stretta per mano, accompagnandola lungo il vialetto che conduceva a scuola. Quanto era imponente, malgrado la malattia che lo curvava irrimediabilmente. E quanto erano grandi quelle mani, che aveva usato per anni per fare altro, cioè parare palloni. Poi le dita si erano sfilate, Gessica era dovuta entrare a scuola e aveva slacciato un sorriso al papà, Giuliano Giuliani, che lo aveva ricambiato. Non potevano sapere che sarebbe stato l’ultimo.
Di quel mostro, l’Aids, lei non aveva saputo nulla per anni. Tumore ai polmoni, le aveva detto mamma. Come fai a spiegarlo a una bambina, quel sentimento lacerante? A pensarci, è quasi peggio che morire. Abbandonato da tutti. Da chi, fino a qualche mese prima, condivideva uno spogliatoio con lui. Dai dirigenti, dai tifosi, dai giornalisti. Dagli amici. Troppo potente il timore che il morbo riesce ad incutere. Devastante lo stigma che ne consegue.
E così Giuliano Giuliani se ne andava a trentotto anni, una mattina di novembre del 1996, avvolto da una coltre di consapevole e ripugnante silenzio. Moriva a Bologna, Giuliani, all’ospedale Sant’Orsola. Dall’alluce del suo piede freddo, poco più tardi, sarebbe penzolato un terribile cartellino: Hiv.
Probabilmente l’aveva contratta – non è però mai stato dimostrato – durante le feste di nozze di Diego Armando Maradona. In Argentina, nel 1989. La moglie era rimasta a casa. In seguito la donna aveva rivelato che la loro relazione era finita per un tradimento avvenuto in quel frangente lì. Poco importa, in fondo.
Rileva, molto di più, il torrenziale vuoto che ha riempito i suoi ultimi giorni. Eppure, quanta gente l’aveva circondato, quando stava bene. Era nato a Roma, nel 1958. Dopo gli inizi tra i pali dell’Arezzo e del Como, il grande salto. Il Verona neocampione d’Italia, per sostituire Garella, passato al Napoli. Avrebbe trascorso tutta la sua carriera a sostituirlo. Infatti poi lo sceglievano i partenopei: al fianco di Diego vinceva una coppa Uefa e lo scudetto del 1990. Dicono che lo avesse voluto proprio lui, Maradona, dopo che una volta Giuliani gli aveva neutralizzato due rigori.
Poi l’arrivo di Giovanni Galli, l’assurdo sbalzo emotivo che dallo scudetto conduce alla serie B con l’Udinese, tre anni passati in Friuli. Quanti compagni, in quel frullatore. Quanta ipocrisia, soltanto qualche mese dopo.
Troppo prematuri i tempi, in Italia, per maneggiare con cautela la piaga degli anni ottanta e novanta. Zero consapevolezza. Distanti anni luce dall’America di Magic Johnson e di tutte le altre icone impegnate nella prevenzione. La soluzione più agile era dunque un’altra. Fare il vuoto intorno a Giuliano. Fare finta di non averlo mai conosciuto. Coprire tutti gli specchi di casa per non morire in un altro modo, uno anche peggiore: di vergogna.
Paura folle e istinto di sopravvivenza: un cocktail letale. Al funerale, infatti, non si presentava nessuno. In seguito, di tutti gli ex compagni, soltanto Renica si sarebbe scusato con la ex moglie. Malato e dunque accantonato. Come ucciderlo due volte.
La sera Gessica non riusciva mai ad addormentarsi da sola. Doveva sempre stringere la mano del papà. Lui gliela teneva stretta, fino a quando il respiro di lei non si faceva più lento, morbido, e le palpebre cedevano. In quei momenti Giuliano poteva ancora sorridere. Una piccola lama di luce dentro un deserto di assordante buio.