Monza – Sono donne con storie diverse, ma con un destino comune: il maltrattamento e la discriminazione. Caterina Barone, 36 anni, madre e beneficiaria del reddito di cittadinanza, da due anni e mezzo è volontaria per l’Auser, occupandosi di contabilità e amministrazione. Nonostante le sue competenze, durante i colloqui di lavoro le è stato sempre posto come problema il fatto di avere figli. “Ad esempio, in un call center di Desio hanno preferito assumere una signora di 61 anni senza figli”, racconta Caterina. Questa situazione si è verificata anche con le sue sorelle e molte altre donne, che si sentono costrette a dichiararsi single per evitare discriminazioni.

Per coloro che invece hanno un lavoro, la discriminazione assume sfumature diverse. Giulia, brianzola di 40 anni, è stata assunta come addetta in un call center nel 2015, ma dopo soli tre mesi si è trovata a ricoprire un ruolo di maggiore responsabilità, pur mantenendo lo stesso contratto. Durante la gravidanza nel 2017, Giulia ha vissuto con apprensione e ha tenuto nascosta la sua condizione fino all’ultimo momento. Ha continuato a lavorare fino al nono mese, anche durante le assenze per malattia o festività. “Mi dicevano di mettere a letto le bambine se volevo finire il lavoro”, racconta Giulia. Non ha potuto godere dei permessi per le figlie e anche la legge 104, che avrebbe avuto diritto a usufruire, le è stata concessa solo per qualche ora. Questa situazione ha avuto un grave impatto sulla sua salute mentale, portandola a perdere 40 chili in due anni. Solo grazie alla vertenza sindacale presentata con la Cisl, Giulia ha ottenuto un risarcimento e ha potuto ricominciare a vivere.

Anche Anna ha subito discriminazioni e violenze nel suo ultimo lavoro, che era anche intersecato con la sua vita personale. Il suo datore di lavoro, che era anche suo marito, l’ha sottoposta a violenza fisica e verbale, oltre a costanti minacce. Nonostante fosse impiegata come part time, lavorava in realtà a tempo pieno, occupandosi di tutta la parte amministrativa. Il suo datore, brianzolo, la discriminava anche per la sua origine meridionale, sottoponendola a continue vessazioni che hanno causato problemi di natura psichica. “Mi manipolava psicologicamente, cercando di ottenere un potere mentale su di me. Quando ha capito che non glielo concedevi, ha iniziato con la violenza fisica”, racconta Anna. È stata sottopagata, sfruttata e sottomessa. Ora, grazie anche al sindacato, ha trovato il coraggio di andarsene e denunciare. È in corso un procedimento penale e, nel frattempo, Anna vuole tornare a vivere, riprendere la sua dignità accanto ai suoi due figli.

Queste testimonianze dimostrano che la discriminazione e il maltrattamento sul lavoro nei confronti delle donne sono ancora una realtà diffusa. È importante che queste storie vengano denunciate e che si agisca per garantire pari opportunità e rispetto per tutti i lavoratori, indipendentemente dal genere. Solo così potremo creare un ambiente di lavoro più giusto e equo per tutte le donne che desiderano ricominciare a vivere senza subire violenze e discriminazioni.

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