Lidia Macchi: 37 anni senza giustizia

Lidia Macchi, vittima di un mostro senza nome, ha subito la distruzione della sua vita e quella dei suoi familiari. Ma non solo, anche la vita di un uomo che ha patito il carcere professandosi innocente, non creduto, condannato e infine definitivamente assolto da ogni accusa.

I fatti risalgono a 37 anni fa, nel gennaio del 1987. Lidia faceva parte di un gruppo di giovani che si mobilitarono dopo la sua sparizione, avvenuta la sera del 5 gennaio. Mario Brusa, avvocato di Varese, era uno degli amici di Lidia e faceva parte di quelle “pattuglie civili” che cercavano di trovarla. Questa storia è conosciuta da tutti, anche da chi non è esperto di cronaca, poiché ancora oggi risuona nei racconti del paese.

La verità finora emersa è che Lidia è stata uccisa con 29 coltellate quella notte, la stessa in cui aveva avuto il suo primo rapporto sessuale. Oggi si parlerebbe di femminicidio e la storia sarebbe subito in prima pagina. Ma allora erano altri tempi. Il Corriere della Sera trattò il caso l’8 gennaio con un breve richiamo in prima pagina (Varese: assassinata una studentessa, a pagina 7 – nella foto). Il fatto sembrava essere il terribile epilogo di una serata iniziata con una visita all’ospedale di Cittiglio e finita in una collina conosciuta per essere frequentata da tossici e coppie in cerca di intimità.

Il ritrovamento di Lidia avvenne il giorno 7 da parte di un gruppo di giovani nel piazzale del palazzetto di Varese. La pattuglia ritrovò la sua auto nei boschi non distanti dall’ospedale di Cittiglio e poco distante trovò il suo corpo senza vita coperto da un cartone. Da qui iniziarono le indagini, con decine di testimonianze raccolte che scandagliarono il mondo della chiesa, delle frequentazioni giovanili, di “Comunione e liberazione”, con relative proteste della curia milanese. Furono iscritti nel registro degli indagati anche parroci e furono effettuate le prime prove del DNA, senza successo. Anche l’incriminazione del “killer delle mani mozzate” Giuseppe Piccolomo fu esclusa grazie al DNA.

Il caso rimase dormiente fino a trent’anni dopo, quando viene riaccesa una pista investigativa basata su una lettera inviata alla famiglia il giorno del funerale di Lidia. Una testimone riconosce la grafia di quello che gli inquirenti ritengono essere il sigillo lasciato dal mostro. Stefano Binda, amico di Lidia, studente di filosofia con problemi di dipendenza, viene accusato e costruito un caso contro di lui. Ma Binda non è colpevole. È la seconda vittima di questa storia, che avrebbe potuto essere salvata da convinzioni accusatorie basate su prove semplici. Un errore giudiziario per il quale un uomo sta ancora aspettando un indennizzo per l’ingiusta detenzione. Ma prima di tutto, c’è un’altra attesa che grava sulle spalle di una famiglia che non ha ricevuto giustizia. E che da 37 anni sta ancora aspettando.

“In noi rimarrà per sempre la ferita di non aver trovato il colpevole”.

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