Per liberare questa zona progettarono la Borsa. “Scale tortuose, ballatoi malfermi, terrazze cadenti”. E l'”eroe” di Carlo Porta che scappa dalla messa
Oggi seguiamo questo individuo: un bigotto ipocrita, un uomo tutto sacrestia, un babbeo allevato a bocconcini sull’inginocchiatoio dei confessionali. Questo individuo, di professione orefice, si prepara di buon mattino e uscendo di casa dice alla sua moglie Peppa: “vado a messa”. Ma poco dopo, mentre attraversa il centro di Milano, nel suo cuore e nel suo ventre il diavolo ingaggia battaglia con l’angelo custode.
Così, camminando camminando, l’orefice devoto arriva a scorgere la facciata del Duomo, ma è proprio lì che il diavolo trionfa: “vado al bordello”. Quindi il galantuomo scappa rapidamente e furtivamente, in un punto che possiamo ancora oggi identificare perfettamente, ovvero l’angolo tra piazza del Duomo e via Mengoni, dove sono sistemate le sculture di Pietro Consagra e di solito si posiziona la camionetta dell’esercito. L’orefice passa per via Pescaria, va giù per via delle Farine, finché il diavolo lo fa girare verso via dell’Aquila al casin. Ecco, di tutte le strade menzionate da Carlo Porta in “La messa noeuva”, poema del 1815/16, ispirato a una disavventura realmente accaduta a un orafo, è sopravvissuta solo via delle Farine. Ma oggi, forse, l’orefice non commetterebbe peccato, o almeno dovrebbe allungare un po’ il tragitto: perché il vicolo, 50 metri dritti e stretti alle spalle di palazzo dei Giureconsulti, è sbarrato all’inizio e alla fine da due pesanti cancelli d’acciaio, tinti di verde e sorvegliati da telecamere.
In questa condizione di via sopravvissuta, visibile ma non percorribile, per lo più ignorata da passanti e turisti, la strada diventa una porta d’accesso alla memoria di una Milano annientata (quasi del tutto) dall’urbanistica post Unità d’Italia, una città che dal medioevo aveva resistito, in sacche residue, fino dopo la Prima guerra mondiale. A raccontare quella città, oggi quasi inconcepibile, c’è ad esempio un’opera straordinaria del 1867: “Milano e le sue vie, studi storici”, di Felice Venosta. Via delle Farine: “Per essere ivi anticamente il mercato delle farine, che era limitrofo a quello del pesce”. Poco distante, tra via San Protaso e l’attuale piazza Cordusio, c’erano via e piazza delle Galline: “A Milano le piazzette, quando non ancora si selciavano, si tenevano a prato e servivano da pascolo per le bestie”. O ancora via dei Due muri (demolita per aprire via Tommaso Grossi): “In questa via c’era la porta segreta che conduceva alla polizia inquisitoriale austriaca”.
Antiche tracce della cessione di via delle Farine da parte del Comune e il motivo per cui oggi la strada è ancora privata e chiusa si trovano tra le pagine d’archivio del Corriere. Anno 1919: “La Camera di Commercio, che ora occupa il palazzo dei Giureconsulti, si estenderà su tutta l’area retrostante, ossia quella ora occupata da via delle Farine, e su quella ingombrata dalle catapecchie che vi prospettano”. Il progetto, “in vista dell’incremento commerciale e industriale della città”, è quello di creare in quella zona una “Borsa delle Merci da accoppiare alla Borsa dei Valori” (1921). Nel 1925, “in via delle Farine si sta ultimando lo sgombero di tre case. Presto sorgerà nello strettissimo budello, dove furono secoli fa magazzini di granaglie, una casa di modernissimo stile”. C’è anche un problema di affollamento, perché all’angolo tra via delle Farine e piazza dei Mercanti si perpetua un’ingombrante abitudine della città più antica: “Raduni tradizionali di agricoltori e commercianti che recano alla viabilità del centro un intralcio ogni giorno più evidente”. L’edificio d’angolo con Santa Margherita viene demolito nel 1928. È l’epoca in cui lo sventramento sembra il miglior servizio da rendere al progresso, e vengono dunque spazzate le “vecchie casette” di via delle Farine: fatte di “scale a chiocciola tortuose, ballatoi malfermi, terrazze cadenti”.
Sono scomparse così la città e l’umanità che si affastellavano intorno ai vecchi magazzini delle farine, un quartiere di logge e budelli, vicoli e fondachi, dall’aspetto portuale pur senza il mare. Della Milano immortalata da Carlo Porta rimangono solo, in una forma ben più dissimulata, uomini galanti e bordelli.