Quando il cielo è sereno da molto tempo, la nostra attenzione si sposta verso il terreno, per capire se e quando potrà dare i suoi frutti. In questi momenti si rafforza il nostro legame con la terra, o meglio, con quell’area più o meno grande del Pianeta che ci appartiene, il terreno.
Come osservava lo stesso Tiraboschi, gli aggettivi per definirlo sono infiniti, anzi, per dirla con lui, questa parola “è capace di moltissimi aggiunti”. Una ricchezza di sfumature che dipende dalla stretta relazione tra lo stato del terreno e la sua potenziale utilità per la nostra stessa sopravvivenza.
Se è un terreno adatto alla coltivazione di alberi o boschi, sappiamo che sarà in grado di fornirci legna per l’inverno, favorendo la crescita degli alberi. Di tutt’altra natura è il terreno da destinare a future messi. Di incerta utilità è il boschetto, dove abbondano i cespugli. Con un’ampia parafrasi descriviamo quello vergine, cioè che non è mai stato lavorato. L’ennesima prova che ci interessa la produttività, da ottenere ovviamente attraverso il duro lavoro quotidiano.
Dobbiamo guardare con attenzione al terreno roccioso, che nasconde al suo interno insidie. Oppure al terreno troppo sfruttato e incapace di offrire copiosi raccolti. Peggio ancora il terreno paludoso e insalubre. Parlando di esposizione alla luce, sappiamo che se è all’ombra, poco sole ne vedrà.
Per quanto riguarda le lavorazioni, il corretto curare il terreno significa renderlo fertile dopo il raccolto, attraverso il concime e la semina di “alcune biade”. Al contrario, sfruttare troppo il terreno equivale a indebolirlo al punto da non renderlo più fecondo.
Un’attività scriteriata che viene anche descritta come abbandonarlo al suo destino. Il che non è contemplato dal nostro codice di comportamento, perché è il contrario di tutto quello che ci hanno insegnato.