Molestata sul lavoro: la storia di una giovane mamma
L’incubo ha avuto inizio con gesti banali. Una mano posata sulla spalla, un complimento gentile, una carezza amichevole. Una morsa che si è stretta gradualmente, ma inesorabilmente: quell’abbraccio prolungato qualche istante in più del dovuto, la costante violazione dello spazio personale, fino ad arrivare addirittura a una pacca sul sedere, poi minimizzata. Una giovane mamma dell’Ovest bresciano è stata ripetutamente vittima di molestie sul posto di lavoro, perpetrate dal suo superiore. Episodi avvenuti in una nota multinazionale e a lungo taciuti, per paura e imbarazzo, finché non ce l’ha fatta più e si è rivolta ai carabinieri. Ne è scaturita un’accurata indagine, fino alla batosta finale. Perché il pm incaricato, la dottoressa Lisa Saccaro, ha chiesto l’archiviazione del procedimento.

Insomma, non ci sarà nessun processo per l’uomo che ha trasformato l’esistenza di una giovane mamma bresciana in un inferno, prima con le attenzioni eccessive e poi, dopo il suo rifiuto, con le continue umiliazioni e insulti. “Nonostante possa astrattamente ritenersi configurabile l’elemento oggettivo del reato, ben potendosi ravvisarsi la violenza di cui all’articolo 609-bis del Codice penale anche nel compimento di atti sessuali repentini, compiuti improvvisamente e senza che la persona destinataria possa efficacemente opporsi, gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”: queste, in sintesi, le motivazioni che hanno portato alla richiesta di archiviazione davanti al Gip. In particolare, essendo l’accusato “una persona estroversa e solita abbracciare e toccare chi gli sta accanto”, non sussisterebbe “l’elemento costitutivo del dolo di costrizione agli atti sessuali”. Un po’ come a dire che l’indole espansiva può giustificare anche un palpeggiamento non voluto. Per il Tribunale, dunque, non c’è stato nessun reato. Per la vittima, costretta a intraprendere un lungo percorso di cura per uscire dalla depressione in cui era piombata, è stato come rivivere l’incubo un’altra volta. Tuttavia, la giovane mamma ha trovato la forza di condividere la sua storia, pur sapendo di non poter ottenere giustizia.

“Mi sono sentita umiliata di fronte all’archiviazione, ma ho pensato che, raccontando ciò che era successo, potevo aiutare altre donne a reagire, a trovare il coraggio di denunciare e di ribellarsi a fatti che non dovrebbero succedere”, ha raccontato. C’è tanta sofferenza negli occhi di questa giovane donna, tanta fragilità, ma anche la speranza di essere utile a qualcuno, lei che di solidarietà, purtroppo, non ne ha ricevuta, nemmeno dai colleghi che sapevano tutto e, sentiti dai carabinieri, hanno negato, taciuto o omesso. “Avevano paura di ripercussioni – ha sottolineato – Una mia ex collega è tornata in caserma dopo aver cambiato lavoro, per integrare quanto aveva dichiarato precedentemente. Ha ammesso di non aver riferito alcuni fatti per paura di ripercussioni lavorative”.

Solo lei, però, ha ritrattato e alla fine a supporto delle accuse mosse dalla vittima c’erano sostanzialmente solo le sue parole, ritenute non abbastanza per sostenere un processo. Condividendo la sua storia, la giovane spera almeno di evitare ad altre di trovarsi nella sua stessa situazione, cogliendo sul nascere i segnali di un potenziale molestatore. “Io ho notato quasi subito uno spiacevole avvicinamento, mi prendeva sotto il braccio chiedendomi come stavo – ha spiegato – La ritenevo una cosa insolita ma, con ingenuità, l’ho reputata una sorta di spirito paterno, vista la differenza d’età (oltre trent’anni, ndr)”. Ma l’atteggiamento si è rivelato sempre più molesto, le attenzioni sempre più frequenti. “Mi baciava sulle guance e mi abbracciava – ha proseguito – Io mi sentivo molto a disagio e in imbarazzo e non sapevo bene come comportarmi, tanto che rimanevo impietrita”.

All’avvicinamento fisico sul posto si lavoro si sono aggiunti i messaggi Whatsapp (per nulla riconducibili a questioni lavorative), le telefonate e la proposta di andare a fare shopping insieme (sottinteso che avrebbe pagato tutto lui). E’ stata l’escalation a far capire alla giovane che ciò che stava accadendo non era normale, e a spingerla a cambiare la sua reazione. “Al posto di sorridere e far finta di nulla, iniziavo a spostarmi dalle sue braccia e cercavo ogni pretesto per evitare quelle situazioni”, ha aggiunto. E, di fronte al rifiuto, è cominciato il mobbing. Insulti continui, rimproveri duri (nonostante tutti i colleghi, una volta sentiti dai carabinieri, abbiano confermato che la giovane fosse professionalmente ineccepibile). “Iniziavo ad avere attacchi di ansia quando lui era presente, e la notte ho cominciato a non riposare bene. Le mie ore di sonno sono arrivate a essere molto scarse, con parecchi risvegli nella notte”, ha rivelato.

E’ in questo periodo che è arrivata la “pacca” sul sedere, che non ha fatto che peggiorare l’equilibrio psicofisico della giovane finché, “esausta delle continue vessazioni”, ha dovuto intraprendere un percorso di cura, scandito da farmaci e sedute di psicoterapia.

Infine la decisione, non facile, di denunciare tutto ai carabinieri, rivelando le persecuzioni che aveva taciuto perfino al compagno.

La notizia dell’archiviazione è arrivata a circa un anno di distanza dalla denuncia presentata in caserma, le indagini sono state accurate e sono state sentite tutte le persone coinvolte. Un fascicolo corposo ma, tuttavia, giudicato insufficiente per istruire un processo.

Lo sguardo è rassegnato, traspare il senso d’impotenza, la percezione che tutto sia stato vano. Ma, in fondo, c’è una luce: quella che scaturisce dalla consapevolezza di esserne uscita, quella che si accompagna alla speranza che la storia sia da stimolo per altre donne che non hanno ancora avuto il coraggio di denunciare.

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