Quando il matrimonio diventa un inferno: la storia di una donna che ha avuto il coraggio di denunciare il marito violento. Quarant’anni lui, quaranta pure lei. Tutto sembrava perfetto, il matrimonio, i figli, ma poi le maschere sono cadute e sono arrivati i giorni fatti di tensioni, paure e fughe. Le vicine di casa in un piccolo paese del Nord del Varesotto, consapevoli di quello che succedeva in quell’abitazione, rallentavano in auto per sbirciare e vedere se tutto era ok, se da quella casa provenivano segnali rassicuranti.

La donna ha trovato il coraggio di denunciare e farsi assistere da un centro antiviolenza “Eos“. È tornata al paese d’origine dove (forse) ha riacquistato una vita normale. Il processo è al primo grado e non ancora concluso, ma si stanno valutando i contenuti delle denunce sporte dalla donna.

Il processo è cominciato al giudice monocratico per il reato di “maltrattamenti in famiglia“ e arrivato al piano procedurale del Collegio per via dell’innesto dell’ulteriore delitto di “violenza sessuale” contestato all’imputato. Le manie di dominio continuavano con l’alleanza assieme alla madre dell’imputato, suocera della vittima. Poi la questione economica: la donna era senza soldi, perennemente.

Nell’ultimo periodo di quella convivenza oramai impossibile, ecco anche l’abuso del controllo totale: le telecamere in casa. E alla sera, al ritorno del marito, le solite frasi: dove sei stata, con chi, perché…In quella casa la violenza non era solo subita, ma anche assistita: gli schiaffi che fanno male anche quando guardi tua mamma che soffre perché viene aggredita, presa per i capelli, colpita.

E poi – come anticipato uscito solo durante il racconto in aula all’inizio della fase dibattimentale – le violenze sessuali, le richieste insistenti di rapporti sempre più estremi, «diversi», pretesi dall’uomo, ora a giudizio e difeso dal suo legale Fabio Ambrosetti: parlerà nelle prossime udienze, prima della decisione di giudici.

La donna ha raccontato di quanto sia stata importante l’assistenza ricevuta dal centro violenza al quale si era rivolta prima di scappare al Sud assieme ai suoi figli. La presunzione d’innocenza vale sul piano giuridico, ma le consolazioni in aula con le carezze degli avvocati rivolte alla vittima di questi reati, le frasi in affanno al termine dell’udienza e tutto l’addentellato di umanità che traspare in processi come questi non sono di certo una finzione.

Lo schema purtroppo ricorrente in casi come questi comprende la perenne volontà di controllare l’altro, di imporre il proprio volere e la propria parola. Questa storia deve far riflettere le vittime, ma anche i potenziali carnefici.

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